giovedì 12 novembre 2015

La Rete del Gusto di Lucca invitata a partecipare alla rete dei borghi europei del gusto

Sarete accompagnati in un viaggio attraverso i sapori della terra Lucchese per ripercorrere emozioni antiche legate alla tradizione, alla cultura e soprattutto alla gente che vi abita. Un progetto che vuole creare un legame, una rete appunto, tra produttori agricoli e artigianali, negozi, ristoranti e agriturismi in modo da fornire al consumatore un panorama completo che lo guidi nella conoscenza, nella scelta, nell’acquisto e nella degustazione dei prodotti tipici e tradizionali di questa provincia che è tra le più ricche e variegate d’Italia. I prodotti sono raccolti in un Paniere Lucchese ad indicare la volontà di offrire tutte insieme le nostre produzioni.

La Rete del Gusto nasce da un progetto innovativo, promosso dalla Provincia di Lucca in collaborazione con Camera di Commercio di Lucca, Unione dei Comuni della Media Valle del Serchio, Unione dei Comuni Alta Versila, Unione dei Comuni della Garfagnana, Coldiretti, Confederazione Italiana Agricoltori, Confagricoltura, Confartigianato, CNA, Confcommercio, Confesercenti.

Obbiettivi principali sono la valorizzazione delle produzioni agroalimentari di qualità, contenute nel PANIERE LUCCHESE dei prodotti tipici, tradizionali e locali della provincia di Lucca e la costituzione di un forte collegamento, una rete appunto, fra imprese produttrici, di trasformazione e distribuzione per promuovere il loro consumo in soprattutto in ambito provinciale.

Definire il Paniere Lucchese non è stata un’iniziativa semplice, ha richiesto un qualificato lavoro di ricerca e selezione, visto la molteplicità e la ricchezza delle nostre produzioni, basato su aspetti quali appunto la tradizionalità, la tipicità, la valenza economica, portando all’individuazione di ben 63 prodotti che rappresentano oggi l’eccellenza dell’agroalimentare della provincia di Lucca.

La RETE del GUSTO deve servire a mettere in stretto rapporto di collaborazione il mondo agricolo della produzione, quello artigianale della trasformazione e quello ristorativo e del commercio al dettaglio con i consumatori e il mercato locale in generale.

La strategia è quella di favorire non solo la vendita e il consumo locale di prodotti, ma anche scambio di idee, di informazioni, di reciproca pubblicizzazione, basata sulla conoscenza tra gli appartenenti alla Rete. In questo modo i rapporti fondati sulla fiducia reciproca diventano una garanzia di serietà della Rete e di qualità e sicurezza alimentare dei suoi prodotti.

Tutti gli iscritti - produttori, artigiani, titolari di agriturismi, ristoranti e negozi - al momento dell’adesione, si impegnano a rispettare il disciplinare che regolamenta il funzionamento di tutto il sistema e adottano un marchio identificativo, riconosciuto dalla Camera di Commercio di Lucca, quale garanzia certificata sulla provenienza e rintracciabilità dei prodotti messi in rete.

I soggetti promotori hanno istituito una commissione di controllo, a cui è affidato il compito di assicurare il rispetto delle norme di adesione e partecipazione delle imprese aderenti e la promozione della Rete presso i consumatori. La Rete del Gusto della provincia di Lucca fa parte integrante del progetto "Vetrina Toscana" promosso dalla Regione Toscana.

La rete dei borghi europei del gusto ha contattato l'Unione dei Comuni della Garfagnana, per promuovere la partecipazione de La Rete del gusto ai progetti e alle iniziative d'informazione dell'Associazione Internazionale.

giovedì 29 ottobre 2015

AGRICOLTURA BIOLOGICA: FA BENE ALL'UOMO, TUTELA L'AMBIENTE. La case history marchigiana, regione all'avanguardia.

’agricoltura biologica è un modello di coltivazione sostenibile che fa bene all’ambiente e quindi anche all’uomo, al consumatore. Questo il tema portante di uno degli incontri dei “Giovedì del Gusto” organizzati da Regione Marche a Milano per presentare le peculiarità di questo settore che non è più di nicchia, ma una solida realtà, sia per superficie agricola utilizzata, sia per valore: la filiera produttiva marchigiana BIO nel 2014 è valsa 35 milioni di euro.
Ne parliamo con il sommelier Giuseppe Lombardo: “Le Marche mi appassionano, per la varietà dei vini presenti e per il connubio tra l’amore per il territorio, il terreno – il c.d. “terroir” – che esprime i vini di questa bella regione, e l’attribuzione del valore della qualità di questi prodotti.
La tradizione del vino biologico marchigiano nasce nella zona tra Ascoli Piceno e Ancona, in specie Offida: sono i viticultori di questa località che hanno iniziato a diffondere questa filosofia nel rispetto del vino, dell’uva e del territorio”.
Ogni uva che è coltivata nella regione esprime una sua identità, il vino biologico in più è privo di sostanze chimiche o anti parassitari, è quindi un prodotto nel rispetto della naturalità.
Il vino biologico esprime tutta la sua franchezza, il suo stato evolutivo, la sua espressione intrinseca, olfattiva, gustativa e visiva, è un prodotto che rispetta l’ambiente, ma soprattutto il consumatore”.

lunedì 19 ottobre 2015

FRUTTA: TUTTI I COLORI DELLE MARCHE Le novità di un settore tra Biologico, Biodiversità e Lotta integrata

Interessante tema quello affrontato ai “Giovedì del Gusto” di Regione Marche, “la Frutta”, che rappresenta un felice esempio di connubio tra tradizione, innovazione e ricerca, sempre con l’obiettivo di offrire prodotti buoni, sani, certificati.
Forte è il legame tra territorio, prodotti e agricoltori: fiore all’occhiello è la Filiera dei produttori della pesca della Valdaso, come pure la pesca di Montelabbate, nella zona di Pesaro, entrambe certificate Qm – Qualità garantita dalle Marche, il marchio nato per creare un rapporto basato sulla fiducia tra produttore e consumatore, con la garanzia della Regione Marche.
Per promuovere queste produzioni, la Regione Marche si è impegnata nel sostenere progetti di sinergia sia con il contesto ricettivo-turistico, sia nel mondo della ristorazione collettiva, per diffondere sempre più largamente la conoscenza di questi prodotti davvero unici.
Nell’ambito dell’incontro è stata presentata la frutta di stagione “pronta all’uso”, che può essere consumata più comodamente, perché già tagliata e confezionata, ma senza alcun conservante. Come ben evidenziato nell’intervento della rappresentante di Altagamma, è proprio la stagionalità a fare la differenza, perché la frutta è raccolta, processata, lavata e messa nelle vaschette nel suo momento migliore.
Confezionata sotto vuoto, con la sola aggiunta di anidride carbonica, questa frutta può essere conservata fino a sette giorni.

lunedì 12 ottobre 2015

OLIO, ENERGIA PER LA VITA. Gli oliomonovarietali marchigiani e…. non solo

Si è parlato di oli monovarietali al “Giovedì del Gusto” dedicato all’olivicoltura ed organizzato nell’ambito del ciclo di incontri realizzato da Regione Marche per il Fuori Expo.
Le Marche vantano, infatti, ben 12 varietà di olio, suddivise per zone di produzione; nel territorio di Pesaro e Urbino troviamo le varietà Raggiola, Nostrale di Rigali, Capolga.
Raggia Mignola e Rosciola Colli Esini rappresentano la zona Anconetana, mentre nel maceratese vengono coltivate le specie Piantone di Mogliano, Mignola, Coroncina, Orbetana, Oliva Grossa. Senza dubbio la più conosciuta in gastronomia è l’ascolana tenera con la quale vengono realizzate le buone “olive fritte all’ascolana”, ma il territorio vanta anche le qualità Sargano di San Benedetto, Carboncella, Ascolana dura, Nebbia del Menocchia, Cornetta. Nel territorio Fermano spiccano infine le qualità Piantone di Falerone, Piantone di Mogliano, Cornetta, Sargano di Fermo.
La cultura e la tradizione dell’olio fanno sì che siano proprio le Marche a gestire la BANCA DATI OLI MONOVARIETALI.
Sono 2.415 campioni di oli monovarietali presenti nella banca dati gestita da IBIMET CNR ed ASSAM: una enorme ricchezza, un patrimonio di biodiversità che vanta 158 varietà provenienti da 18 regioni italiane, una banca dati in continua evoluzione, con i profili sensoriali, composizione in acidi grassi e contenuto in fenolitotali di oli che presentano un livello qualitativo superiore rispetto a quello richiesto dalla normativa per la categoria extravergine, che quindi hanno superato le rigide selezioni del Panel regionale ASSAM –Marche.
La Banca dati fa riferimento alle ultime 10 stagioni olivicole ed è consultabile sul sito http://www.olimonovarietali.it

mercoledì 8 luglio 2015

Il Monticano nasce a Cozzuolo : come i vini di Sarah dei Tos.E non dimenticate il ristorante al Larin, da Bepo !

Il Monticano (Montegan in veneto, anticamente Motegan) è un fiume del Veneto che scorre completamente in provincia di Treviso.
L'origine del nome forse risale al verbo monticare, perché un tempo i pastori lo usavano come via di collegamento tra la pianura veneta e le montagne. Un'ipotesi forse più certa lo fa derivare dal nome latino Monticanus, probabilmente un centurione romano che aveva ricevuto come premio dei terreni nella zona delle sorgenti.

Nasce sul monte Piai (540 m), piccolo rilievo presso Cozzuolo di Vittorio Veneto, da tre sorgenti. Da qui scaturiscono i rami detti rispettivamente Monticanello, rio Montagnana e rio Col di Stella. Convenzionalmente viene considerata come sorgente principale quella del rio Montagnana. La più spettacolare è quella da cui origina il rio Col di Stella, che non è però visitabile perché un pozzetto di captazione delle acque ne impedisce la vista; si trova in località le Perdonanze, a pochi metri da una stradina panoramica frequentata da cicloturisti.

Dopo un percorso di poco più di un centinaio di metri, il rio Col di Stella forma una cascata di circa 50 metri, denominata Pisson, un tempo ben più copiosa. La pozza alla base della cascata è facilmente raggiungibile ed è meta di escursioni didattiche. L'accesso è assai spettacolare: si percorre una forra di marna, arenaria e conglomerato, che identificano le origini geologiche non solo del monte Piai ma di tutti i colli circostanti.

Il piccolo centro di Cozzuolo (comune di Vittorio Veneto), si trova a sudovest di Ceneda, raccogliendosi ai piedi di una catena di modesti rilievi collinari in buona parte coltivati a vigneto.

La Chiesa di Cozzuolo era un' antica cappella affiliata alla cattedrale di Ceneda, nel 1640 divenne curaziale e nel 1942 parrocchiale. L'edificio attuale fu costruito nel 1840 senza demolire la cappella originale che sussiste, con le sue linee tardo-romaniche, sul suo fianco nord. Il caratteristico campanile neoromanico, progettato da Domenico Rupolo, è del 1922-23.Tra le opere qui custodite, la pala della Madonna della Salute con san Rocco e altri santi di Antonio Dal Favero (1887), una Madonna addolorata di Giovanni Sasso sull'altare di sinistra, e il dossale ligneo policromo dell'altare di destra, pregevole opera del 1617.

Sarah dei Tos è una 'bocconiana' ritornata nelle vigne. Mai scelta fu più saggia.
La Vigna di Sarah è un’azienda vitivinicola giovane e frizzante che rispecchia una terra dai mille colori e profumi accarezzata dal sole e dal vento. E’ stata creata nel 2010 da Sarah Dei Tos, nata e cresciuta nella terra del Prosecco, lungo la fascia collinare fra le colline di Vittorio Veneto.
L’azienda guidata da Sarah Dei Tos nel 2014 è diventata anche agriturismo. Un bed and breakfast tutto nuovo, che trova posto a Vittorio Veneto, molto confortevole e ben attrezzato, ricavato dal recupero di una casa colonica autoctona.
Vittorio Veneto sorge alle pendici delle Prealpi Trevigiane e con i suoi 450 ettari di vigneto rappresenta uno dei comuni più importanti della denominazione Conegliano Valdobbiadene ed è caratterizzata da diverse rive interessanti sotto il profilo viticolo: Manzana, Carpesica, Formeniga e appunto Cozzuolo, piccolo borgo situato su una ripida pendice collinare ricoperta da splendide vigne.Nel dialetto della zona pedemontana della Marca trevigiana il termine riva è sinonimo di vigneto situato in una collina il più delle volte molto scoscesa. La Vigna di Sarah Le Rive di Cozzuolo è perciò un Prosecco Superiore DOCG Conegliano Valdobbiadene che proviene integralmente dalla località Cozzuolo – una delle 43 Rive all’interno dei quindici comuni del Conegliano Valdobbiadene – e permette di apprezzare tutte le sfumature che questo particolare territorio conferisce al vino. La sua produzione è ridotta, rispetto al classico Prosecco, a 130 quintali per ettaro, con l’obbligo della raccolta manuale delle uve e dell’indicazione dell’annata.
È il prodotto di uno specifico vigneto che cresce in una zona con particolare vocazione vinicola, dove il terreno e il clima regalano al vino particolari caratteristiche organolettiche. La vendemmia manuale obbligatoria, consente di preservare l’integrità delle bucce degli acini, fondamentale per la conservazione e il successivo trasferimento degli aromi nel vino.

Il prosecco di Sarah lo potrete degustare al ristorante il Larin, da Bepo.
Il "larin" è il grande focolare della casa colonica che ospita il ristorante sulle colline di Vittorio Veneto,a due km dall'uscita dell'autostrada Vittorio Veneto Sud.Nella cucina regna il rispetto per il ciclo delle stagioni e nella scelta degli ingredienti.
La carne alla griglia fà da padrona:costate e fiorentine di scottona nazionale,fassona piemontese,chianina toscana e angus oppure spiedi,arrosti o selvaggina.Sfiziosi sono gli antipasti.Tra i primi non manca mai la pasta e fagioli o il radicchio e fagioli .La pasta,i ravioli,i gnocchi e i dolci sono rigorosamente fatti in casa.Terrazzo all'aperto per le calde serate estive.

lunedì 25 maggio 2015

Belgio : La Vallonia, le birre trappiste e i percorsi della fede

Silvia Lenzi, direttore dell'Ufficio Belga per il Turismo Bruxelles-Vallonia di Milano, ha preparato per i comunicatori e i giornalisti della rete dei borghi europei del gusto delle cartelle stampa davvero esaustive.

Il primo incontro è stato dedicato alla Vallonia.
La Vallonia, la regione a sud del Belgio, è fra le più verdi d’Europa. Il suo territorio, che misura poco meno di 17.000 km, è ricoperto per il 90% da foreste secolari come le Ardenne e Les Fagnes, ed è attraversato da fiumi maestosi come la Mosa e la Sambre le cui rive scoscese e a tratti tortuose si possono discendere persino in kayak o navigare dolcemente lasciandosi cullare dal ritmo lento di una gita in peniche.
Ecco perché questa regione, composta dalle cinque province dell'Hainaut, del Brabante Vallone, di Namur, di Liegi e del Lussemburgo Belga, è la meta ideale per chi ama soprattutto una vacanza a contatto diretto con la natura. Invita infatti a scoprire i suoi innumerevoli paesaggi, a esplorare le sue stupefacenti foreste in un soggiorno al di fuori del tempo assieme alle piacevolezze di una buona tavola che si rifà alle antiche tradizioni rurali.
Ma la Vallonia è anche una terra ricca di storia e di arte con un passato di tutto rispetto che si rivela nelle affascinanti cittadine di Tournai, di Liegi, di Namur, di Mons dove, quando meno te lo aspetti, scopri un’antica abbazia, un castello, una fortezza, una roccaforte, un museo.
E per chi volesse recuperare il proprio benessere fisico, deve venire proprio in Vallonia. A Spa, la città delle terme ai confini del massiccio delle Ardenne, la reputazione delle sue acque è diventata un mito universale che si perpetua ormai dal XVI secolo.


Il Belgio è anche e soprattutto la patria delle birre trappiste, una vera chicca per intenditori. Esistono infatti solo otto birre trappiste al mondo di cui ben sei sono prodotte in Belgio e tre nella sola regione della Vallonia: le birre d’Orval, di Chimay e di Rochefort, che conservano i loro segreti nel cuore delle abbazie. In alcuni casi birrerie e laboratori dei monasteri si possono anche visitare. Dove invece non è possibile entrare c’è sempre un posto, un bistrot dove gustare quella birra speciale fatta a regola d’arte.

Le birre d’abbazia sono prodotte con l’antico metodo dell’alta fermentazione; generalmente corpose e di forte contenuto alcolico (da 6 a 9 gradi alcolici). La loro colorazione varia dall’oro carico, all'ambrato, al rosso cupo, al bruno scuro. Si richiamano alle birre che venivano anticamente prodotte in numerose abbazie belghe.
I nomi delle birre d’abbazia vengono da monasteri esistenti oppure storici che non esistono più: Leffe, Maredsous, Val-Dieu, Floreffe. Alcune, infine, conservano il nome dell’abbazia, ma non sono necessariamente legate alla produzione nelle strutture religiose.

Oltre alle celebri etichette delle birre trappiste di Orval, Chimay e Rochefort, esistono tanti piccoli birrifici artigianali come Dubuisson, Val-Dieu, Bocq, Val de Sambre e Achouffe solo per citarne alcuni. Ed è anche possibile seguire un itinerario, da percorrere in libertà con auto a noleggio, che consente di visitare le principali abbazie trappiste specializzate fin dall’epoca medioevale nella realizzazione di birra, cioccolato e formaggi artigianali, prodotti secondo un rigoroso codice etico che impone massima cura nella selezione delle materie prime, attenzione alle tecniche di produzione tradizionali e un modello commerciale finalizzato all’autosostentamento, senza scopo di lucro.

Il circuito include la visita di Bruxelles, Dinant, Rochefort e Namur. Si può far sosta nell’abbazia trappista di Notre Dame d’Orval, specializzata nella produzione di birra dal XVII secolo e nell’abbazia di Notre Dame de Scourmount, dove vengono prodotti formaggio e birra Chimay, di cui esistono quattro varietà. E alla fine del viaggio è posssibile fare una degustazione di cioccolato a Bouillon o visitare l’azienda familiare «Brasserie du Bocq» che dal 1858 produce milioni di litri di birra ogni anno.

Ma la Vallonia, la regione a sud del Belgio, è anche una terra ricca di storia e di arte con un passato di tutto rispetto che si rivela nelle affascinanti cittadine di Liegi, di Namur, di Mons e di Tournai, tutte destinazioni che meritano un viaggio perché a ogni angolo vi si può scoprire un’antica abbazia, un castello, una fortezza, una roccaforte, un museo.

Laboratorio Europa ha dedicato alle birre della Vallonia uno speciale incontro presso il pub Saxophone di Salgareda (Tv), autentica tana del gusto ove è possibile degustare le birre e la cucina di Daniele Rorato e della sua famiglia. Tre autentiche chicche hanno accompagnato la degustazione
di tre birre : un club sandwich assai particolare ( con porchetta trevigiana, frittata ed altre leccornie...) ; un panino con rucola e bresaola della Valtellina e un ultimo panino... piccante.

Info: www.belgioturismo.it

domenica 25 gennaio 2015

La Locanda da Metino al Tempio di Ormelle

Come non ricordare gli incontri a convivio, promossi dal giornalista di San Polo di Piave, Rolando Anzanello, per far conoscere, in tempi non sospetti, i vini del Piave e i prodotti tipici ?
La strada ci conduceva spesso alla Trattoria da Metino, a Tempio di Ormelle. dove quel fantastico istrione proponeva con la sua famiglia una cucina tradizionale, che utilizzava a piene mani i prodotti locali.

Dal web, tanto per fare un esempio :Una piacevole scoperta questa trattoria di campagna dall'aria volutamente retró anche se forse un po' troppo buia nella sala ristorante. Ma a questo non ci fai poi molto caso perché vieni subito rapito dai sapori di piatti eccellenti, quasi dimenticati (lumache, carne lessa con salsine fatte in casa, crostini con petto d'oca, pasticcio di crespelle con pomodoro e formaggio). Di tutto quello che abbiamo assaggiato non c'era nulla che non fosse fatto magistralmente. La signora che ci ha piacevolmente accompagnato durante la cena raccontandoci della vicina Chiesa Templare, delle tradizioni e della storia del paese ha condito la nostra cena dando quel valore aggiunto che fa la differenza. Prezzi onestissimi. ".

Ci siamo ritornati, dopo tanti anni, con l'idea fissa di organizzare un incontro per ricordare gl

La Chiesa dei Templari a Ormelle nei Percorsi della Fede

Il Cenacolo Terre del Piave dell'Associazione l'Altratavola partecipa al progetto Comunicare per Esistere 2015, nell'area de I Pertcorsi della Fede ed Eurovinum, Il Paesaggio della vite e del vino.

Nell'area dei Percorsi della Fede una tappa fondamentale sarà a Tempio di Ormelle, per visitarela Chiesa dei Templari.

Chiesa dei Templari

Costruita nel XII secolo (la prima citazione è del 1178), essa era parte di un complesso più vasto detto Masón (da Mansionis Templi) che costituiva un luogo di sosta per i pellegrini diretti in Terra Santa. La scelta del luogo non fu casuale: Tempio si trova lungo la via Opitergium-Tridentum e a breve distanza dalla via Postumia, due assi stradali romani ancora utilizzati nel medioevo.
Quando, nel 1312, l'ordine dei Templari venne soppresso, il complesso passò ai Giovanniti (più noti come Cavalieri di Malta). Sotto la loro gestione, la Masón si evolse da ospizio ad azienda agricola, costituita da un'estesa proprietà terriera comprendente anche case e mulini. È in questo periodo che il complesso cambia intitolazione: anticamente detto mansionis Sanctae Marie de Templo de Campanea), dal 1777 risulta intitolato a san Giovanni Battista.
La cura delle anime del paese era affidata a un sacerdote scelto dai Templari e successivamente approvato dal vescovo di Ceneda; a partire dal 1684 esso risulta parroco.
Con l'arrivo di Napoleone, nel 1797, San Giovanni del Tempio viene confiscato ai Cavalieri, mentre la giurisdizione ecclesiastica veniva assunta completamente dal vescovo di Ceneda. La Masón, messa all'asta,pervenne nel 1810 all'opitergino Gasparro Moro che fece demolire tutti gli edifici risparmiando solo la chiesa.
Pur avendo subito varie ricostruzioni e rimaneggiamenti (XIV secolo1628, inizio Ottocento19031923) la chiesa conserva ancora il suo originale impianto romanico.
L'accesso, sulla facciata rivolta ad ovest, è anticipato da un portico che si sviluppa anche sul lato sud. È più tardo della chiesa e, anzi, nel 1723-1731 fu ampliato verso est. Presenta un interessante ciclo di affreschi, realizzati in tre fasi successive dal XII-XIII secolo al XVI secolo.
Sul lato nord si notano ancora le tracce della porta che immetteva al limitrofo cimitero.
Gli interni, costituiti da un'unica navata, hanno linee tipicamente romaniche, sobrie e severe. Il presbiterio era costituito da tre absidiole; l'attuale abside centrale è del 1923, mentre le due più piccole che la affiancano sono del 1955.
Il campanile, per quanto antico, risale probabilmente a un'epoca successiva rispetto alla chiesa. Nel Settecento era stato intonacato a marmorino e cocciopesto, ma negli anni 1960 gli è stato restituito l'aspetto originale con mattoni facciavista.
Un cenno merita la canonica cinque-secentesco che, in precedenza, costituiva la residenza dell'agente o del procuratore dei Cavalieri.

Caffè Toraldo - Filosofia


un chicco di caffè fra le dita
La caffè Toraldo viene fondata a Napoli nel 1960. Il costante orientamento all’innovazione che la caratterizza le permette ben presto di distinguersi sul mercato per la qualità dei suoi prodotti. Nel 1993 il mercato della Caffè Toraldo si è diversificato al punto da rendere necessaria l’inaugurazione di un nuovo stabilimento produttivo a Casandrino. Nel corso degli anni la Caffè Toraldo pur diversificando i propri prodotti resta legata al proprio core business originario, la “sapiente arte della torrefazione”, fonte dei maggiori successi dell’azienda, che nel 2006 inaugura l’attuale stabilimento produttivo di Carinaro, dotato delle tecnologie più all’avanguardia nel settore della produzione di caffè. Oggi la Caffè Toraldo rappresenta un punto di riferimento nel mercato dellatorrefazione di caffè, presente nei maggiori mercati nazionali e internazionali.

Il vero caffè napoletano


I Napoletani, sicuramente hanno il primato per il largo consumo che fanno di caffè e per i diversi modi in cui lo preparano.
La " tazzulella 'e cafè " fa parte delle irrinunciabili abitudini del napoletano: è la pausa di lavoro, il complemento del pranzo, il risveglio del mattino... la prima cosa che si offre ad un ospite e per quante sono le persone che lo amano, tanti sono i modi di prepararlo (oltre a quello tradizianale) e di gustarlo, e di questo gran numero, Vi proponiamo alcuni tra i piu diffusi.

Per fare un vero caffè napoletano, si deve avere "la macchinetta napoletana"; è solo così infatti, che il caffè mantiene tutto il suo aroma.
Una volta aperta e riempito il filtro, avendo cura di non inserire troppa polvere, appiattire il tutto con un cucchiaino, e con la punta di qust' ultimo, praticare alcuni piccoli solchi nella miscela.
Riavvitare quindi, il coperchio e riempire d'acqua la parte della caffettiera priva di beccuccio, fino a circa mezzo centimetro dal forellino di sfogo, e reinserire il gruppo filtrante.
Inserire quindi, la parte dotata di beccuccio. La caffettiera cosi composta, è pronta per essere messa sul fuoco,(appoggiandovi la parte senza beccuccio). L'uscita del vapore dal forellino, segnala l'ebollizione dell'acqua; a questo punto togliere la caffettiera dal fuoco e capovolgerla, tenedola saldamente per entrambe i manici.
Durante l'attesa, sarà vostra cura preparare il cosiddetto "coppetiello" che altro non è che un foglietto di carta, tradizionalemente di giornale, che bagnato e plasmato a forma di cono, sarà inserito sul beccuccio non appena la caffettiera sarà stata girata. La sua funzione non è relativa, anzi, serve a imprigionare l'aroma e il profumo del caffè all'interno della "macchinetta". A questo punto, non resta che attendere 2-3 minuti per il filtraggio del caffè e qundi servir
e.
 

Caffè al cioccolato
Grattugiate una tavoletta di cioccolato fondente di circa 100 gr. e fatelo fondere leggermente su fiamma bassa. Preparate mezzo litro di caffè forte e non zuccherato e, quando è ancora bollente, aggiungete la cioccolata e mescolate per farla sciogliere completamente.
Caffè del cardinale
Versate il caffé bollente nelle tazzine, copritelo con panna montata e una spolverata di cacao in polvere, accompagnato da qualche biscottino.
Caffè in crema
Mescolate un bicchiere di caffé forte con un bicchiere di latte e una bustina di vanillina. Lavorate tre tuorli con tre cucchiai di zucchero e fate cuocere a bagnomaria versandovi piano piano il latte e caffé. Fate cuocere fino a che la crema non sara abbastanza densa. Quindi servitela immediatamente, calda accompagnata da biscottini secchi. Questa è una simpatica alternativa per I'ora del thé dedicata agli amanti del caffé.
Caffè all'anice
Versare il caffè bollente nei " bicchierini" ed aggiungere un buon cucchiaio di Anice in ogni bicchierino e zuccherare a piacere.


sabato 24 gennaio 2015

La storia del caffè napoletano

caffè

STORIA DEL CAFFE' NAPOLETANO

Per essere i primi non è necessario arrivare per primi.
Il caffè che si beve a Napoli è notoriamente il più buono del mondo, eppure qui il caffè è arrivato assai più tardi che altrove.
E' una vecchia storia, anzi è più semplicemente la Storia; che, com'è noto, tende a ripetersi. La pasta, per dirne un('altr)a, arrivò a Napoli dalla Sicilia, dov'era giunta a sua volta dal mondo arabo. Ci arrivò con grande ritardo, ma poi recuperò rapidamente lo svantaggio.
Lo stesso dicasi per il babà. A inventarlo fu un polacco: Stanislaw Leczinsky, re di Lorena. A Napoli lo portarono parecchio tempo dopo i Monsù, i cuochi francesi. Ma solo dopo essere passato per le mani dei pasticcieri napoletani, il babà diventò il dolce acclamatissimo che conosciamo.
Non è forse questo, del resto, il segreto della creatività? Non tanto, o non solo, inventare qualcosa ab initio: quanto modificare, ridisegnare, rielaborare quel che già esiste.
E' precisamente questo che i napoletani hanno fatto con il caffè.
Il momento esatto dell'arrivo del caffè a Napoli non è determinabile con precisione.
Le strade individuate con maggiore chiarezza sono due. Percorrendo a ritroso la prima, giungiamo al 1614, e al musicologo romano Pietro Della Valle. Abbandonata la Città Eterna per una delusione amorosa, Della Valle si era stabilito a Napoli. Da qui la sua indole avventurosa lo indusse a partire alla volta di un luogo ancor più eterno: la Terra Santa. Laggiù si innamorò di una splendida donna, e vi rimase ben dodici anni. Ma non aveva dimenticato gli amici che si era fatto a Napoli: con uno di essi, il medico, grecista, arabista e poeta Mario Schipano, era rimasto in contatto epistolare.
Lo Schipano di tanto intanto radunava i comuni amici, e leggeva loro le lettere che contenevano le mirabolanti ed esotiche avventure di Pietro. In una delle sue 56 lettere, Della Valle racconta di una specialissima bevanda detta "kahve", che i mussulmani consumavano al termine delle abbuffate di rito che seguivano l'ancor più rituale digiuno del Ramadan, che durava dall'alba al tramonto. Calata la notte, ci si scatenava a mangiare, e a bere questo kahve: un liquido profumato che veniva fuori da bricchi posti sul fuoco, e versato in piccole scodelle di porcellana, continuamente svuotate (e riempite) durante le conversazioni che seguivano il pasto.
Nelle sue lettere Della Valle riporta anche alcuni metodi di preparazione del kahve: il caffè (perché è di questo che si tratta), e di come gli arabi preferiscano berlo amaro.
Può anche darsi che, come prometteva in un'altra lettera, Pietro Della Valle abbia poi realmente portato a Napoli questo mitico kahve-caffè; ma di ciò non vi è certezza.
L'altra via per la quale il caffè potrebbe essere arrivato a Napoli è molto più breve: 50 km. scarsi. La distanza che separa Salerno da Napoli.
A Salerno il caffè sarebbe giunto clandestinamente, sotto mentite spoglie; travestito da medicina. Ecco perché Salerno: la città campana era la sede della celebre Schola Medica Salernitana. Il patrimonio di quest'accademia di sapienti era affidato alla diffusione orale di di 382 aforismi in latino, che furono (finalmente!) manoscritti nel primo decennio del XIV secolo.
Nacque così il "Flos medicinae Scholae Salerni". Verso la metà del secolo successivo, gli aforismi erano diventati 2130. Due di essi citano espressamente il caffè, che "concilia e impedisce il sonno, allevia il mal di testa, giova allo stomaco, aumenta la diuresi e agevola le mestruazioni".
Ci troviamo verso la metà del 1400: dunque un secolo e mezzo prima che Pietro Della Valle citasse il caffè nelle sue lettere.
E' possibile che le quartine sul caffè del "Flos Medicinae" siano apocrife, in quanto inserite in seguito: ma potrebbero anche essere autentiche.
Il caffè potrebbe infatti essere stato già presente in Campania verso il 1450, quando a Napoli regnavano gli Aragonesi. Alfonso D'Aragona era allora a capo di un vasto impero formato dall'Aragona, la Catalogna, Valencia, Maiorca, la Sardegna e la Sicilia. Le navi di Alfonso solcavano il mar Mediterraneo, e da qui raggiungevano i porti del Levante. Da cui riportavano tutti i prodotti orientali all'epoca commerciabili.
Non a caso, Salerno era all'epoca sede di un'importante fiera commerciale.
Ad ogni modo, qualunque sia la strada per la quale vi è giunto, il caffè si è diffuso a Napoli assai più tardi che a Venezia, Firenze e Roma. Fino all'inizio del 700, a Napoli il caffè era sulla bocca di tutti, ma non dentro: per dire che di questa immaginifica bevanda capitava che si parlasse, ma era difficile trovare qualcuno che se la fosse bevuta.
Lo conferma il fatto che nel trattato di cucina "Lo scalco alla moderna" pubblicato da Antonio Latini a Napoli nel 1694, il caffè non compare, se non come rimedio per i convalescenti.
In favore del caffè spezzarono più di una lancia Giovan Francesco Gemelli Careri nel suo "Giro intorno al mondo" (1699), e il religioso Pompeo Sarnelli (1716). Ma invano: per l'intero settecento, a bere caffè a Napoli furono solo pochi aristocratici terribilmente snob.
L'ottocento era già in vista in fondo al rettilineo del secolo: era ormai il 1794, quando il grande gastronomo napoletano Vincenzo Corrado, autore del ricettario "Il cuoco galante", si mise in testa di imporre il caffè all'attenzione generale. Sembrandogli (a ragione) assurdo che una cosa così buona fosse così poco nota al grande pubblico.
Con felice intuito da pubblicitario (e da uomo marketing) il Corrado abbinò il caffè al cioccolato, nel trattatello "La manovra della cioccolata e del caffè".
Per renderlo più appetitoso, vi inserì una "Cantata in onore della cioccolata" dell'abate Pietro Metastasio, e -dulcis in fundo! -, una "Canzonetta in difesa del caffè" opera di don Nicola Valletta. Al quale dedicò la sua "Manovra".
Perché mai la dedicò al Valletta, invece che al Metastasio, poeta che ancor oggi tutti conosciamo?
Perché a quei tempi questo Nicola Valletta, che oggi ai più non dice perfettamente niente, era una vera e propria icona della napoletanità. Un maitre-a-penser, il sommo specialista di una materia che a Napoli ha sempre avuto largo seguito: la jettatura.
E'esattamente questo, il motivo per il quale il Corrado dedica al Valletta la sua operina, e gli commissiona un componimento pro-caffè; per sfatare la pericolosa diceria che stava prendendo piede a Napoli, secondo la quale il caffè portava jella.
Come si era diffusa quest'infamante calunnia? Forse perché il caffè è nero, e perciò richiama il lutto; o perché è amaro, come i guai. O magari per una ragione più concreta: il suo gusto amarostico ne faceva il nascondiglio ideale per fatture, filtri magici, e porcherie varie.
La "Manovra" del Corrado era dunque una manovra salvacaffè: se il maggior esperto di jettatura dice che il caffè porta bene, gli si può (gli si deve!) credere.
L'impresa, manco a dirlo, riuscì così bene da trasformare in pochi anni i caffè da untore del malocchio ad antidoto contro di esso: da portaseccia a portafortuna.
Ne fa fede un episodio dell'epoca: un marchese, dopo aver scoperto che un suo vicino di tavola di qualche giorno prima aveva fama di jettatore, si lamentò con gli amici di non essere stato avvertito in tempo: in tal caso - sosteneva - gli avrebbe gettato in faccia il proprio caffè, per spezzare il malefico raggio del suo sguardo.
Ripulita così la propria immagine, il caffè si sparse per tutta la città. Ai primi dell'Ottocento fece la sua comparsa il Caffettiere ambulante, che percorreva la città in lungo e in largo munito di due recipienti, uno pieno di caffè e l'altro di latte, e di un cesto con tazze e zucchero. All'alba la sua voce rompeva il silenzio della notte appena trascorsa: "'O latte te l'aggio fatto roce roce. 'O caffettiere cammina Nicò». Traduzione: "Il latte te l'ho preparato ben zuccherato. Il caffettiere cammina, Nicola!"
La frase era la stessa tutti i giorni dell'anno, salvo che per l'ultima parola: il nome proprio posto alla fine. Che cambiava secondo il calendario liturgico. Il caffettiere (una grande idea!) forniva così un servizio in più ai suoi clienti (e anche ai passanti), per i quali questo "ricordo" era spesso importante per supplire a una dimenticanza, e per evitare una brutta figura con il parente (o l'amico): a Napoli a ricevere gli auguri il giorno del proprio onomastico la gente ci teneva, e ci tiene ancora.
Oggi a Napoli il caffè non è più legato alla fortuna o alla sfortuna: è semplicemente il simbolo dall'amicizia, e dell'attenzione per se stessi e per il proprio benessere. Spezzare il ritmo convulso di certe nostre giornate andandoci a prendere un caffè (in compagnia, ma anche da soli) ci aiuta a non prenderci un esaurimento.
Ma basta leggere. E' il momento di prendersi una pausa. Dicit'a verità: a furia di sentirne parlare, non vi è venuta voglia di un buon caffè?

Il Caffè

IL CAFFE’

Ecco il caffè, signore, caffè in Arabia nato,
E dalle carovane in Ispaan portato.
L'arabo certamente sempre è il caffè mi
gliore.
C. Goldoni: La Sposa Persiana)

La drupa del caffè, simile per colore e dimensioni ad una ciliegia, nasce da un albero sempreverde. Contrariamente a quello che afferma Goldoni, sembra che la pianta del caffè derivi dall’Etiopia, dove nasce spontaneo tra i 1000 e i 1300 m.s.l.m. e che di qui fosse trasportato in Arabia e successivamente nelle Indie nel Medio Oriente e finalmente in Occidente, a Venezia.
Già a partire dal 1454 nell'odierno Yemen era consuetudine sorseggiare il caffè ed il governo ne approvò il consumo lodando le sue qualità; da qui partì una vera e propria diffusione che toccò le coste del Mar Rosso, La Mecca e Medina, fino a d arrivare al Cairo incontrando un ampio favore dei popoli arabi, grazie anche dal divieto del Corano di bere il vino, che fu immediatamente sostituito proprio con il caffè, che era anche chiamato "Vino dell'Islam".
La religione islamica si diffondeva rapidamente ed altrettanto rapidamente portava nei Paesi raggiunti e conquistati il fascino di questa nuova bevanda scura, il caffè appunto, che giunse a Costantinopoli nel 1517 circa, dopo la conquista dell'Egitto ad opera di Selim I°. Da allora si prese l'abitudine di berlo in tutto l'impero turco, mentre tale uso era già ben radicato a Damasco (dove c’erano due locali molto noti: il “Caffè delle Rose” ed il “Caffè della via della Salvezza”) e ad Aleppo,
Anche a Costantinopoli nacque un gran numero di Caffè, alcuni estremamente sfarzosi, che servivano sia come luogo d'incontro e di svago sia come luogo di dibattito politico.
Venezia fu, a quanto pare, (ma non mancano i sostenitori di Livorno) la prima città italiana che conobbe l'aroma del caffè, che in breve si diffuse in tutta la Penisola ed anche di altri Paesi specialmente del centro-nord Europa.
Oltre ad essere consumato come semplice bevanda, il caffè veniva anche bevuto per sfruttare alcune sue proprietà medicamentose e digestive e per questo motivo il suo prezzo era piuttosto elevato. Nel momento in cui si capì che la diffusione del caffè era tale da poter riempire le casse dello Stato nacquero le prime "Botteghe del Caffè", la più antica esistente in Europa, il Caffè Florian (
1720 ), si trova tuttora sotto i portici di Piazza San Marco a Venezia.
In Italia il caffè divenne presto dono da offrire in circostanze particolari, come dono d'amicizia ed amore; era abitudine che i corteggiatori inviassero alle proprie innamorate vassoi colmi di caffè e cioccolata.
L'affermarsi del caffè come nel mondo musulmano, incontrò qualche problema, uno in particolare è importante da ricordare perché legato alla religione: alcuni sacerdoti si mostrarono contrari alla diffusione di questa bevanda e ne proposero la scomunica ritenendola una "bevanda del diavolo" e fecero pressione su Papa Clemente VIII affinché ne vietasse l'uso. Il motivo era forse larvatamente politico, in quanto gli incontri nei caffè favorivano dibattiti, spesso di ordine politico e quindi poteva essere visto come fonte di sedizione; nell’800 il caffè venne addirittura chiamato “la bevanda della libertà”
Ma ritornando al Pontefice, veramente illuminato, prima d'interdirla volle provarla di persona e ne rimase colpito in modo talmente positivo che non solo decise di non mettere il caffè al bando, ma addirittura lo volle battezzare rendendolo una "bevanda cristiana".

Varietà di caffè
Le specie più usate sono l’Arabica (quasi 80%del mercato) e la Robusta; la prima più chiara, di sapore più delicato e con meno caffeina (1,1/1.7%), la seconda, come suggerisce il nome stesso, più scura, con un sapore più deciso ed un maggior tenore di caffeina (2/4,5%). Vi sono poi diverse varietà, a seconda del paese d’origine: ”Moka”, “Giamaica”, “Santos, ”Santo Domingo”, ”Costarica” ecc.
Il caffè decaffeinato si ottiene eliminando la caffeina con del vapore prima della tostatura.
La bravura del torrefattore sta innanzi tutto nel dosare con abilità le miscele di questi prodotti, in modo da ottenere esattamente il sapore e l’aroma desiderato, poi naturalmente nel processo stesso di torrefazione, che consiste nel cuocere, mediante correnti di gas o aria calda con temperature fino ai 230°C, i chicchi, che vengono continuamente agitati in appositi recipienti. La tostatura ha l’effetto di ridurre la percentuale di acqua e di caffeina e di fare affiorare sul chicco un olio chiamato “caffeone” che determina il caratteristico aroma. Perciò queste operazioni di miscelatura e di torrefazione sono tenute gelosamente segrete da ogni torrefattore.

Conservazione del caffè

Il caffè teme l’umidità e soprattutto l’aria; perciò è bene usarlo prima possibile una volta aperta la confezione, soprattutto se si tratta di caffè macinato.
Proprio per ovviare a questo problema si sta diffondendo l’uso di capsule o cialde monouso, che permettono di mantenere sotto vuoto il caffè fino al momento dell’uso.

Metodi per fare il caffè

Un tempo il caffè veniva fatto in un semplice recipiente di metallo o di coccio in cui si metteva il caffè a bollire per poi toglierlo dal fuoco e aggiungere altro caffè e poi rimettere a bollire per tre volte.
Un progresso fu rappresentato, dalla “napoletana” quella di Edoardo de Filippo in “Questi fantasmi” (che però non è stata inventata da un napoletano bensì da un cecoslovacco nel 1750, detta la "caffettiera di Karlsbad" dal nome della città in cui fu costruita per la prima volta).
La caffettiera napoletana è composta da due parti separate da un filtro a cestello. Il cestello viene riempito di caffè tostato scuro e macinato fine. La parte inferiore della caffettiera viene riempita d’acqua mentre quella “di servizio” viene posta sopra a chiusura di tutto. La parte con l’acqua è a contatto con il fuoco e viene portata a temperatura di ebollizione. Infine la caffettiera napoletana si toglie dal fuoco e si capovolge velocemente per permettere all’acqua calda di filtrare nel cestello, attraversando la polvere di caffè ed estraendone aroma, gusto, profumo per poi raccogliersi nel contenitore inferiore, con il caffè pronto al consumo.
Un successivo progresso nella preparazione, sempre casalinga, del caffè si ebbe nel 1933 con la caffettiera “Moka Express” brevettata dall’industriale Bialetti, che sostituì nel dopoguerra tutti gli altri apparecchi per fare il caffè nelle nostre case. La macchinetta è semplicissima, composta da soli tre pezzi: la caldaia inferiore con la valvolina di sicurezza, il filtro in cui si mette la polvere di caffè e la parte superiore dove si raccoglie la bevanda, che sale grazie ad un cannello centrale. Si pone sul fuoco ed in brevissimo tempo l’acqua in ebollizione passerà nella parte superiore.
Ma la concezione moderna del caffè è legata alla macchina per caffè da bar brevettata in Italia nel novembre del 1901 dall’ingegnere Luigi Bezzera di Milano. Si tratta di una versione a colonna, monumentale, destinata a diventare per molto tempo un modello di riferimento obbligato da parte delle diverse case costruttrici. Anche in precedenza c’era l’usanza di consumare tale bevanda nei locali pubblici, ma ciò che distingueva una caffettiera domestica da una per bar era sostanzialmente il solo fattore dimensionale.
Con questa macchina il caffè è ottenuto attraverso una speciale tecnica che usa una pressione molto alta dell'acqua, rendendo possibile una bevanda che è allo stesso tempo concentrata, corposa e ricca. Questa tecnica di preparazione mette in evidenza il meglio del caffè stesso, estraendo il 25% della sostanza dai chicchi macinati contro il 20% del caffè filtrato.
Il vantaggio più importante di questo straordinario procedimento sta nella capacità unica dell'espresso di ottenere l'emulsione degli oli presenti nel caffè macinato.  
Grazie a questo, la bevanda ci delizia con le sue 3 caratteristiche inequivocabili: a) la sua crema: vale a dire, la schiuma che tipicamente raggiunge la sommità di ogni buona tazza di espresso; b) il suo corpo: l'emulsione degli oli dà al caffè una pienezza di "corpo" che non può essere ottenuta con altre tecniche di preparazione; c) il suo aroma: la grande ricchezza dell'aroma è dovuta alla presenza della crema che evita alle sostanze volatili di disperdersi nell'aria subito dopo la sua preparazione.
In più, se paragonato ad altri metodi di preparazione, l'espresso risulta anche avere una più bassa concentrazione di caffeina grazie al più breve contatto tra l'acqua e la polvere macinata (dai 20 ai 30 secondi contro i 4-5 minuti per il caffè filtrato) oltre alla minore quantità d'acqua che viene usata.

Usanze di altri Paesi
Oltre che in Italia, il caffè è molto comune in numerosi altri Paesi, dove viene servito secondo usanze differenti. In Olanda viene servito su un vassoio su cui sono disposti, per ciascuna
persona, una piccola caffettiera, un bricchetto di panna, dello zucchero e un bicchiere di acqua. In
Grecia e Turchia viene servito per primo il più anziano e rispettato. Poiché le tazzine di caffè piene indicano antipatia verso le persone cui si porgono, vengono riempite solo a metà.
In Francia il caffè di mattina viene gustato accompagnato da croissant, mentre nel corso della giornata viene servito demi-tasse (metà tazzina), a volte con una correzione alcolica.
Generalmente è preparato con la macchinetta filtro.
Marocco: preparato alla turca, il caffè in questo Paese è denso, forte e dolce, spesso arricchito con grani di pepe e sale per esaltarne l'aroma. In India ai chicchi di caffè torrefatti vengono aggiunti acqua e zucchero grezzo. Servito principalmente al Sud, è spesso accompagnato da
una serie di snack preparati con ogni sorta di legumi, erbe e spezie.
In Russia il caffè (meno frequente del tè) viene spesso bevuto con l'aggiunta di una buccia di limone. In Finlandia, secondo una vecchia ricetta si fa così: prepararlo con il metodo del
bricco con filtro a stantuffo, aggiungere un vecchio pezzo di pelle di pesce per far
depositare il caffè e chiarificarlo. Poi togliere la pelle del pesce e servire il caffè nei boccali, insieme con panna, latte e burro.
Dal
Giappone un sistema diverso per l'impiego del caffè: il bagno curativo. Stare per qualche tempo immersi in caffè e succo d'ananas provoca un’ottima sauna rinvigorente. In Germania viene servito con latte condensato o panna in scatola, il caffè è spesso accompagnato dai
famosi dolci tedeschi. In
Gran Bretagna si usa soprattutto caffè solubile. Negli Stati Uniti viene servito in tazze riscaldate, con aggiunta di latte o panna, zucchero o dolcificanti. Generalmente viene preparato con la macchinetta a colino.
Questi tuttavia sono metodi tradizionali per il caffè casalingo; nei bar è ormai universale l’uso della macchina espresso italiana, anche se il diverso criterio di miscelatura e di torrefazione dà risultati ben differenti.
Perciò il vero Espresso all’Italiana si fa solo qui e ben lo sanno i connazionali che si recano all’estero, i quali appena tornano in Italia si precipitano al più vicino bar per prendere un caffè…di quello buono!
Gianluigi Pagano
Aforismi sul caffè

Il caffè è una bevanda che fa dormire quando non la si prende.
Alphonse Allais

Tutto passa a questo mondo, salvo il caffè nei cattivi filtri.
Alphonse Allais, Il gatto nero, 1881/97

Il caffè, per essere buono, deve essere nero come la notte, caldo come l'inferno e dolce come l'amore.
Michail Bakunin (attribuito)

Si cambia più facilmente religione che caffè.
Georges Courteline, La filosofia di Georges Courteline, 1922
 
Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro.
Eduardo De Filippo, in Fantasmi a Roma, 1961
A riempire una stanza basta una caffettiera sul fuoco.
Erri De Luca, Tre cavalli, 2000

Amo le donne calde e il caffè freddo, perché l'uno e l'altro mi consentono di guadagnare tempo.
Lucien Guitry

C'è qualcosa in comune tra il calore umano e quello del caffè... L'amarezza, senza dubbio.
Laurent Houndegla, Regards croisés

La scoperta del caffè fu, a suo modo, importante quanto l'invenzione del telescopio o del microscopio. Il caffè infatti ha inaspettatamente intensificato e modificato le capacità e la vivacità del cervello umano.
Heinrich Eduard Jacob

Io giudico un ristorante dal suo pane e dal suo caffè.
Burt Lancaster

Se noiosa ipocondria t'opprime,/ O troppo intorno a le vezzose membra/ Adipe cresce, de' tuoi labbri onora/ La nettarea bevanda, ove abbronzato/ Fuma et arde il legume a te d'Aleppo/ Giunto, e da Moca, che di mille navi/ Popolata mai sempre insuperbisce.
Giuseppe Parini, Il giorno, 1763-1801

Il caffè dev'essere caldo come l'inferno, nero come il diavolo, puro come un angelo e dolce come l'amore.
Charles-Maurice di Talleyrand-Périgord (attribuito)

Per prendere un caffè e tradire la moglie c'è sempre tempo.
Totò (Antonio De Curtis), in Sua eccellenza si fermò a mangiare, 1961

Il caffè è il balsamo del cuore e dello spirito.
Giuseppe Verdi 

Caffè vero, verissimo di Levante e profumato col legno di aloè, che chiunque lo prova, quand'anche fosse l'uomo il più grave, l'uomo il più plumbeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli e almeno per una mezz'ora diventi uomo ragionevole.
Pietro Verri

Una donna che non sa fare il caffè per me può essere solo un’avventura.
Fabio Volo, Esco a fare due passi, 2001

Gustare il caffè- Museo di Pera- Istambul


Gerusalemme: caffè in strada XIX sec.

Vincent van Gogh, "The Night Café", 1888, Yale University Art Gallery

Caffé Florian Venezia