sabato 24 gennaio 2015

La storia del caffè napoletano

caffè

STORIA DEL CAFFE' NAPOLETANO

Per essere i primi non è necessario arrivare per primi.
Il caffè che si beve a Napoli è notoriamente il più buono del mondo, eppure qui il caffè è arrivato assai più tardi che altrove.
E' una vecchia storia, anzi è più semplicemente la Storia; che, com'è noto, tende a ripetersi. La pasta, per dirne un('altr)a, arrivò a Napoli dalla Sicilia, dov'era giunta a sua volta dal mondo arabo. Ci arrivò con grande ritardo, ma poi recuperò rapidamente lo svantaggio.
Lo stesso dicasi per il babà. A inventarlo fu un polacco: Stanislaw Leczinsky, re di Lorena. A Napoli lo portarono parecchio tempo dopo i Monsù, i cuochi francesi. Ma solo dopo essere passato per le mani dei pasticcieri napoletani, il babà diventò il dolce acclamatissimo che conosciamo.
Non è forse questo, del resto, il segreto della creatività? Non tanto, o non solo, inventare qualcosa ab initio: quanto modificare, ridisegnare, rielaborare quel che già esiste.
E' precisamente questo che i napoletani hanno fatto con il caffè.
Il momento esatto dell'arrivo del caffè a Napoli non è determinabile con precisione.
Le strade individuate con maggiore chiarezza sono due. Percorrendo a ritroso la prima, giungiamo al 1614, e al musicologo romano Pietro Della Valle. Abbandonata la Città Eterna per una delusione amorosa, Della Valle si era stabilito a Napoli. Da qui la sua indole avventurosa lo indusse a partire alla volta di un luogo ancor più eterno: la Terra Santa. Laggiù si innamorò di una splendida donna, e vi rimase ben dodici anni. Ma non aveva dimenticato gli amici che si era fatto a Napoli: con uno di essi, il medico, grecista, arabista e poeta Mario Schipano, era rimasto in contatto epistolare.
Lo Schipano di tanto intanto radunava i comuni amici, e leggeva loro le lettere che contenevano le mirabolanti ed esotiche avventure di Pietro. In una delle sue 56 lettere, Della Valle racconta di una specialissima bevanda detta "kahve", che i mussulmani consumavano al termine delle abbuffate di rito che seguivano l'ancor più rituale digiuno del Ramadan, che durava dall'alba al tramonto. Calata la notte, ci si scatenava a mangiare, e a bere questo kahve: un liquido profumato che veniva fuori da bricchi posti sul fuoco, e versato in piccole scodelle di porcellana, continuamente svuotate (e riempite) durante le conversazioni che seguivano il pasto.
Nelle sue lettere Della Valle riporta anche alcuni metodi di preparazione del kahve: il caffè (perché è di questo che si tratta), e di come gli arabi preferiscano berlo amaro.
Può anche darsi che, come prometteva in un'altra lettera, Pietro Della Valle abbia poi realmente portato a Napoli questo mitico kahve-caffè; ma di ciò non vi è certezza.
L'altra via per la quale il caffè potrebbe essere arrivato a Napoli è molto più breve: 50 km. scarsi. La distanza che separa Salerno da Napoli.
A Salerno il caffè sarebbe giunto clandestinamente, sotto mentite spoglie; travestito da medicina. Ecco perché Salerno: la città campana era la sede della celebre Schola Medica Salernitana. Il patrimonio di quest'accademia di sapienti era affidato alla diffusione orale di di 382 aforismi in latino, che furono (finalmente!) manoscritti nel primo decennio del XIV secolo.
Nacque così il "Flos medicinae Scholae Salerni". Verso la metà del secolo successivo, gli aforismi erano diventati 2130. Due di essi citano espressamente il caffè, che "concilia e impedisce il sonno, allevia il mal di testa, giova allo stomaco, aumenta la diuresi e agevola le mestruazioni".
Ci troviamo verso la metà del 1400: dunque un secolo e mezzo prima che Pietro Della Valle citasse il caffè nelle sue lettere.
E' possibile che le quartine sul caffè del "Flos Medicinae" siano apocrife, in quanto inserite in seguito: ma potrebbero anche essere autentiche.
Il caffè potrebbe infatti essere stato già presente in Campania verso il 1450, quando a Napoli regnavano gli Aragonesi. Alfonso D'Aragona era allora a capo di un vasto impero formato dall'Aragona, la Catalogna, Valencia, Maiorca, la Sardegna e la Sicilia. Le navi di Alfonso solcavano il mar Mediterraneo, e da qui raggiungevano i porti del Levante. Da cui riportavano tutti i prodotti orientali all'epoca commerciabili.
Non a caso, Salerno era all'epoca sede di un'importante fiera commerciale.
Ad ogni modo, qualunque sia la strada per la quale vi è giunto, il caffè si è diffuso a Napoli assai più tardi che a Venezia, Firenze e Roma. Fino all'inizio del 700, a Napoli il caffè era sulla bocca di tutti, ma non dentro: per dire che di questa immaginifica bevanda capitava che si parlasse, ma era difficile trovare qualcuno che se la fosse bevuta.
Lo conferma il fatto che nel trattato di cucina "Lo scalco alla moderna" pubblicato da Antonio Latini a Napoli nel 1694, il caffè non compare, se non come rimedio per i convalescenti.
In favore del caffè spezzarono più di una lancia Giovan Francesco Gemelli Careri nel suo "Giro intorno al mondo" (1699), e il religioso Pompeo Sarnelli (1716). Ma invano: per l'intero settecento, a bere caffè a Napoli furono solo pochi aristocratici terribilmente snob.
L'ottocento era già in vista in fondo al rettilineo del secolo: era ormai il 1794, quando il grande gastronomo napoletano Vincenzo Corrado, autore del ricettario "Il cuoco galante", si mise in testa di imporre il caffè all'attenzione generale. Sembrandogli (a ragione) assurdo che una cosa così buona fosse così poco nota al grande pubblico.
Con felice intuito da pubblicitario (e da uomo marketing) il Corrado abbinò il caffè al cioccolato, nel trattatello "La manovra della cioccolata e del caffè".
Per renderlo più appetitoso, vi inserì una "Cantata in onore della cioccolata" dell'abate Pietro Metastasio, e -dulcis in fundo! -, una "Canzonetta in difesa del caffè" opera di don Nicola Valletta. Al quale dedicò la sua "Manovra".
Perché mai la dedicò al Valletta, invece che al Metastasio, poeta che ancor oggi tutti conosciamo?
Perché a quei tempi questo Nicola Valletta, che oggi ai più non dice perfettamente niente, era una vera e propria icona della napoletanità. Un maitre-a-penser, il sommo specialista di una materia che a Napoli ha sempre avuto largo seguito: la jettatura.
E'esattamente questo, il motivo per il quale il Corrado dedica al Valletta la sua operina, e gli commissiona un componimento pro-caffè; per sfatare la pericolosa diceria che stava prendendo piede a Napoli, secondo la quale il caffè portava jella.
Come si era diffusa quest'infamante calunnia? Forse perché il caffè è nero, e perciò richiama il lutto; o perché è amaro, come i guai. O magari per una ragione più concreta: il suo gusto amarostico ne faceva il nascondiglio ideale per fatture, filtri magici, e porcherie varie.
La "Manovra" del Corrado era dunque una manovra salvacaffè: se il maggior esperto di jettatura dice che il caffè porta bene, gli si può (gli si deve!) credere.
L'impresa, manco a dirlo, riuscì così bene da trasformare in pochi anni i caffè da untore del malocchio ad antidoto contro di esso: da portaseccia a portafortuna.
Ne fa fede un episodio dell'epoca: un marchese, dopo aver scoperto che un suo vicino di tavola di qualche giorno prima aveva fama di jettatore, si lamentò con gli amici di non essere stato avvertito in tempo: in tal caso - sosteneva - gli avrebbe gettato in faccia il proprio caffè, per spezzare il malefico raggio del suo sguardo.
Ripulita così la propria immagine, il caffè si sparse per tutta la città. Ai primi dell'Ottocento fece la sua comparsa il Caffettiere ambulante, che percorreva la città in lungo e in largo munito di due recipienti, uno pieno di caffè e l'altro di latte, e di un cesto con tazze e zucchero. All'alba la sua voce rompeva il silenzio della notte appena trascorsa: "'O latte te l'aggio fatto roce roce. 'O caffettiere cammina Nicò». Traduzione: "Il latte te l'ho preparato ben zuccherato. Il caffettiere cammina, Nicola!"
La frase era la stessa tutti i giorni dell'anno, salvo che per l'ultima parola: il nome proprio posto alla fine. Che cambiava secondo il calendario liturgico. Il caffettiere (una grande idea!) forniva così un servizio in più ai suoi clienti (e anche ai passanti), per i quali questo "ricordo" era spesso importante per supplire a una dimenticanza, e per evitare una brutta figura con il parente (o l'amico): a Napoli a ricevere gli auguri il giorno del proprio onomastico la gente ci teneva, e ci tiene ancora.
Oggi a Napoli il caffè non è più legato alla fortuna o alla sfortuna: è semplicemente il simbolo dall'amicizia, e dell'attenzione per se stessi e per il proprio benessere. Spezzare il ritmo convulso di certe nostre giornate andandoci a prendere un caffè (in compagnia, ma anche da soli) ci aiuta a non prenderci un esaurimento.
Ma basta leggere. E' il momento di prendersi una pausa. Dicit'a verità: a furia di sentirne parlare, non vi è venuta voglia di un buon caffè?

Nessun commento:

Posta un commento