La consacrazione ufficiale del radicchio rosso, come pregiato ortaggio invernale simbolo di Treviso, avviene per opera di Giuseppe Benzi. Questi, un agronomo di origine lombarda trasferitosi nel 1876 a Treviso come insegnante all’istituto tecnico Riccati, divenuto responsabile dell’Associazione Agraria Trevigiana, darà vita, nel mattino di giovedi 20 dicembre 1900, alla prima delle mostre che annualmente la città di Treviso dedicherà alla rossa cicoria proprio sotto la centralissima Loggia di piazza dei Signori. Vincitore della prima edizione fu Antonio De Pieri detto Fascio, fittavolo della tenuta De Reali di Dosson ( Treviso ), a conferma della diffusa voce popolare che identifica in Dosson ( Treviso ) la patria del radicchio rosso. Da allora, ogni anno, all’approssimarsi del Natale, per una mattina, il cuore della città vedrà protagonisti gli uomini provenienti dalle vicine campagne e la Loggia, sia pure per poche ore, assumerà l’aspetto di un coloratissimo giardino d’inverno.
La mostra del radicchio accompagnerà l’ultimo secolo della storia cittadina e verrà interrotta solamente in due occasioni: durante la grande guerra, quando Treviso verrà, di fatto, a trovarsi in prima linea, e negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale.
...A partire dal 1970 alla mostra di Treviso si aggiungeranno tutta una serie di mostre periferiche.
Le mostre di Santa Cristina, Preganziol, Zero Branco, Mogliano, Lughignano, Dosson, Rio San Martino di Scorzè, Martellago, pur con tutti i loro limiti di manifestazioni prettamente locali, si sono dimostrate un importante momento di valorizzazione di questo ortaggio, di discussione dei problemi agronomici ed economici a esso legati, nonché di una sempre maggiore conoscenza delle sue indiscusse qualità gastronomiche.
Abbiamo visto che le prime notizie certe sul radicchio sono apparse attorno al 1860. Ma come si è giunti a trasformare una varietà della comune cicoria (perché di questo alla fin fine si tratta) nel prelibato radicchio rosso tardivo di Treviso?
Al riguardo non ci sono testimonianze precise e la leggenda a volte si confonde con la realtà. Molte sono infatti le storie che tuttora i vecchi contadini amano raccontare in quello che, ben a diritto, può essere considerato il luogo d’origine del radicchio, cioè Dosson. C’è chi parla di uccelli che hanno lasciato cadere il seme di questa pianta speciale sul campanile del paese in tempi lontanissimi, chi parla di frati che hanno saputo trovare e conservare con cura questo seme, chi ancora racconta di una piantina che cresceva spontanea lungo i fossi e ai bordi degli orti finché qualcuno non scoprì la possibilità di trasformarla nel croccante radicchio per mezzo dell’imbianchimento.
L’eclettico Giuseppe Maffioli (uomo di teatro, studioso di cultura veneta e gastronomo), cui la valorizzazione del radicchio trevigiano deve moltissimo, è stato il primo acercare di dare una spiegazione verosimile alla questione. Egli ipotizzò una partecipazione a questa nascita (1860-1870) di Francesco Van Den Borre, specializzato nell’allestire parchi e giardini, che giunse a Treviso dal Belgio, a villa Palazzi, per realizzare uno dei più bei complessi di verde annesso a una villa veneta, secondo un prototipo di giardino all’inglese. La sua esperienza anche nelle tecniche di imbianchimento già da molto in uso per le cicorie belghe, avrebbe potuto essere utile allo sviluppo del prodotto trevigiano. Il figlio di Francesco, Aldo, continuatore della sua opera e benemerito personaggio trevigiano, escluse tuttavia questa ipotesi a suo tempo.
Viene allora in mente una delle tante storie raccolta da chi scrive queste note. Racconta Silla Bovo, un pensionato di Treviso che da ragazzo frequentava gli Artuso e i Reato, vecchi agricoltori di S. Angelo, di aver sentito dire da loro che tutto era iniziato quando qualche contadino della zona un inverno portò a casa dei radicchi di campo ammassati in una carriola.
I radicchi furono dimenticati in un angolo finché una sera, durante il filò, uno della famiglia avvicinatosi alla carriola estrasse dal mucchio una piantina e, tolte le foglieesterne ormai appassite e guaste, si trovò fra le mani con sua grande sorpresa un bel radicchio dal cuore sano e dal colore rosso vivo.
Ecco, è molto probabile che la scoperta della possibilità di trasformare la varietà di cicoria invernale da sempre presente nei campi attorno a Treviso nel rosso e croccante radicchio che ora conosciamo sia dovuta a un fatto puramente casuale, come peraltro è avvenuto non di rado in molte altre branche dell’attività umana.
Ma va sottolineato come il caso non sia mai del tutto fortuito. Non si può infatti dimenticare quella che è un po’ una costante degli agricoltori, sotto tutte le latitudini: una, sia pur non appariscente, “attitudine sperimentale” – per dirla con lo studioso Danilo Gasparini – che porta spesso ad autentiche scoperte, che solo più tardi vengono riconosciute, e a volte fatte proprie, da chi magari i contadini li ha sempre disprezzati.
...A partire dal 1970 alla mostra di Treviso si aggiungeranno tutta una serie di mostre periferiche.
Le mostre di Santa Cristina, Preganziol, Zero Branco, Mogliano, Lughignano, Dosson, Rio San Martino di Scorzè, Martellago, pur con tutti i loro limiti di manifestazioni prettamente locali, si sono dimostrate un importante momento di valorizzazione di questo ortaggio, di discussione dei problemi agronomici ed economici a esso legati, nonché di una sempre maggiore conoscenza delle sue indiscusse qualità gastronomiche.
Abbiamo visto che le prime notizie certe sul radicchio sono apparse attorno al 1860. Ma come si è giunti a trasformare una varietà della comune cicoria (perché di questo alla fin fine si tratta) nel prelibato radicchio rosso tardivo di Treviso?
Al riguardo non ci sono testimonianze precise e la leggenda a volte si confonde con la realtà. Molte sono infatti le storie che tuttora i vecchi contadini amano raccontare in quello che, ben a diritto, può essere considerato il luogo d’origine del radicchio, cioè Dosson. C’è chi parla di uccelli che hanno lasciato cadere il seme di questa pianta speciale sul campanile del paese in tempi lontanissimi, chi parla di frati che hanno saputo trovare e conservare con cura questo seme, chi ancora racconta di una piantina che cresceva spontanea lungo i fossi e ai bordi degli orti finché qualcuno non scoprì la possibilità di trasformarla nel croccante radicchio per mezzo dell’imbianchimento.
L’eclettico Giuseppe Maffioli (uomo di teatro, studioso di cultura veneta e gastronomo), cui la valorizzazione del radicchio trevigiano deve moltissimo, è stato il primo acercare di dare una spiegazione verosimile alla questione. Egli ipotizzò una partecipazione a questa nascita (1860-1870) di Francesco Van Den Borre, specializzato nell’allestire parchi e giardini, che giunse a Treviso dal Belgio, a villa Palazzi, per realizzare uno dei più bei complessi di verde annesso a una villa veneta, secondo un prototipo di giardino all’inglese. La sua esperienza anche nelle tecniche di imbianchimento già da molto in uso per le cicorie belghe, avrebbe potuto essere utile allo sviluppo del prodotto trevigiano. Il figlio di Francesco, Aldo, continuatore della sua opera e benemerito personaggio trevigiano, escluse tuttavia questa ipotesi a suo tempo.
Viene allora in mente una delle tante storie raccolta da chi scrive queste note. Racconta Silla Bovo, un pensionato di Treviso che da ragazzo frequentava gli Artuso e i Reato, vecchi agricoltori di S. Angelo, di aver sentito dire da loro che tutto era iniziato quando qualche contadino della zona un inverno portò a casa dei radicchi di campo ammassati in una carriola.
I radicchi furono dimenticati in un angolo finché una sera, durante il filò, uno della famiglia avvicinatosi alla carriola estrasse dal mucchio una piantina e, tolte le foglieesterne ormai appassite e guaste, si trovò fra le mani con sua grande sorpresa un bel radicchio dal cuore sano e dal colore rosso vivo.
Ecco, è molto probabile che la scoperta della possibilità di trasformare la varietà di cicoria invernale da sempre presente nei campi attorno a Treviso nel rosso e croccante radicchio che ora conosciamo sia dovuta a un fatto puramente casuale, come peraltro è avvenuto non di rado in molte altre branche dell’attività umana.
Ma va sottolineato come il caso non sia mai del tutto fortuito. Non si può infatti dimenticare quella che è un po’ una costante degli agricoltori, sotto tutte le latitudini: una, sia pur non appariscente, “attitudine sperimentale” – per dirla con lo studioso Danilo Gasparini – che porta spesso ad autentiche scoperte, che solo più tardi vengono riconosciute, e a volte fatte proprie, da chi magari i contadini li ha sempre disprezzati.
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